Giuseppe Silvi
di Giuseppe Silvi
Maestro di difesa contro le arti oscure. Inizia ad udire in età prenatale. Ascolta dall'età di 27 anni ma punta con rispetto a sentire.

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Si inizia con un’infanzia, lunga quasi 42 anni, chiedendo continuamente scusa, grazie! Scusa.

Siamo troppi su questo pianeta. Ce lo dice… io. Lo dico io. Scusate siamo troppi. Grazie

Siamo in troppi a voler fare ostinatamente musica su questo pianeta. per quale musica? Siamo troppi per qualsiasi musica. Siamo troppi a voler insegnare musica a troppi che vogliono fare musica. Insegnare cosa? Per prima cosa che tutti possiamo farla. Questo pensiero incrementa le nascite: con la musica ci si accoppia intrattenuti, non trattenendo, incrementando le nascite di scuole in cui incrementare gli iscritti che poi inevitabilmente incrementano l’offerta ad una irrefrenabile voglia di fare musica.

Fare. No! Grazie! Scusa.

Purtroppo l’idea che ognuno abbia diritto di accedere a tutto, compresa l’arte, nello specifico l’arte musicale, è un’anomalia, un vizio di forma che, unita ad una smodata passione per il repertorio (che agevola il fare, fare repertorio), ha ridotto la percezione dell’arte a mera pratica. I confini tra arte, disciplina e fare si sono confusi, a tratti, distratti.

Da nessuna parte sta scritto che non si dovrebbe fare. Che la musica fatta si chiama intrattenimento e l’intrattenimento è uguale per ogni campo disciplinare e non richiede necessariamente un diploma di merito, un diploma d’alta formazione artistica. Tuttavia, posso soffermarmi ancora una volta ad indicare con delicatezza la musica che è, quella che si potrebbe chiamare arte, sottolineando con un sorriso che questo essere appartiene all’uomo, in nessun modo a quello che fa.

E sì! tutti potremmo avere diritto all’intrattenimento, se usassimo le parole con chiarezza. Perché è bello avere cura del prossimo, ma a nessuno è dato il diritto di aprire in due una persona per curarla a cuore aperto, giusto per fare. E, dato importante, colui che è in grado di farlo ed è devoto nel farlo, non lo considera un diritto, ma un dovere. Il dovere all’arte, l’etica del musicista.

Siamo troppi, e solo a pochi è chiaro che l’arte è emersione dell’unico. Dell’uno.

Siamo troppi, infatti è livellata a disciplina. Anche nei luoghi dell’alta formazione artistica, ormai, è disciplina di intrattenimento. E tutto è disciplina, e tutto è disciplinato. Tuttavia l’arte è indisciplinata. Leonardo, convieni con me, siamo troppi.

Prendi l’arte e mettila da parte. Mettici il sesso, disciplina. L’amore è indisciplinato, come l’arte, ma tutti vogliono fare il sesso. Scuole di sesso, ma per quale amore?

Ho più volte provato a ridurre l’amore ad un algoritmo. Amore, relazione intima, interna, come un set di filtri: amare, essere amati e sentirsi amati.

L’amore come un algoritmo. Un piccolo algoritmo dell’amore.

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Immagino l’amore tra padre e figlio. Uno dei due, scegliete quale, può amare l’altro senza necessariamente sentirsi amato. Più o meno sicuramente l’amore è corrisposto, l’altro è amato, ma il rubinetto che controlla l’entrata, quel (1-gy) è chiuso, impedisce l’entrata. Oppure il coefficiente gy di sensibilità non è ben equilibrato, alimentato da auto-convinzioni (che sono convinzioni in feedback), e seppure il rubinetto non è completamente chiuso, il sentire ciò che entra è reso inefficace, inefficiente, schiacciato dalla costante interna.

Esplodete quelle relazioni tra persone. Immaginate corde che collegano entrate e uscite multiple di ogni persona… una rete di filtri in feedback.

Sono semplici filtri ad integrazione, più o meno lenti. Ma possiamo costruirci su un esercizio sociale, un esercizio di stile: ci basta posizionare un’unità di ritardo dentro ogni filtro. Cosa accadrebbe? accadrebbe che il figlio potrebbe sentirsi amato un tempo dopo, in ritardo. Quanto in ritardo? Poco, tanto, quando magari il papà non c’è più. L’amore e il feedback: aiuto!

Il filtro così disegnato inizierebbe ad avere attività di risonanza, per questo Schroeder lo identifica come modulo basilare della costruzione del riverbero. Quei piccoli tre filtri assumono la funzione di pareti riflettenti, di superfici tra cui risuonare. Le risonanze interne ad ognuno che si riversano all’esterno in una rete sociale, in un complesso riverbero fdn della società.

Persone. Amore, ritardi e filtri d’amore. Amore per la persona, che è l’unico modo per amare la musica e l’arte, che è la più alta forma d’espressione umana.

Vorrei sentirmi meno solo in questo mondo troppo pieno di noi che facciamo cose.

Nasciamo predisposti per fare sesso ed udire. E chi non può? È più solo? Udiamo da prima di uscire dal sesso. Avvolti nel percorso finale del fare, già udiamo, completi di tutto quello che serve per farlo. L’ascolto, come atto, atto d’ascolto, arriva dopo. Esattamente come per l’atto sessuale, anche se sessualmente siamo completi da tempo. Quanto dopo? Varia. Io sono stato tardivo in entrambi i casi. Perché mentre il fare c’era già, l’ascolto e l’amore si imparano piano piano.

Nell’ imparare ad amare e ad ascoltare c’è innanzi tutto una rinuncia. Una rinuncia al fare, perché non siamo fatti per il fare che distrae l’attenzione. Per amare ci vuole l’attenzione, che per ascoltare.

Quanta? Per quale musica? Per quale amore?

Poco sopra. Poco di lato. Poco altrove, c’è l’arte. Dove l’attenzione diventa utopica attitudine, luogo altro, c’è l’arte di sentirsi amati, l’arte di sentire. Sentire. Con i sensi. Sensazione. Imbarazzo. Amore. Suono. Il suono come sensazione, come strato sensibile della mente, coscienza, come l’amore. Uguali. la rinuncia al fare indiscusso che distrae attiva così la capacità dell’ascolto, concede lo spazio al sentire, al sentimento.

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Il suono come l’amore. L’amore come il suono. L’utopia del sentire, del sentirsi.

L’amore per il suono, per la musica, per l’amore, ci rende alieni, stranieri su un pianeta che consuma il sentire, relitto, sprofondato nel mare del fare.

Io faccio… Io…

Scusate, siamo troppi. Grazie! Troppi io. Il tropp’io è dilagato. Scusate…