Giuseppe Silvi
di Giuseppe Silvi
Maestro di difesa contro le arti oscure. Inizia ad udire in età prenatale. Ascolta dall'età di 27 anni ma punta con rispetto a sentire.

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Quando chiedo agli studenti di fare molta attenzione alle cose che non piacciono, di trovare delle motivazioni ai propri disagi, scavare i perché dal disappunto, per conoscerlo e condurlo ad una motivazione, spiego anche che ogni tanto, ravanando nel brutto, si possono trovare informazioni utili che richiedono un tempo lungo di analisi, un tempo più lungo del bello o brutto istantaneo.

Ma non è questo il caso.

Salito in macchina, ogni tanto accade, accendo su Radio3. È la fascia oraria di Radio3Suite e da subito odo parlare di musica contemporanea. Mi metto in ascolto. Una voce che non riconosco (Stefano Valanzuolo) intervista Michele Marco Rossi (violoncellista) e con lui conduce un ascolto della novità discografica firmata Kairos, Ivan Fedele: Works for Violoncello.

Preciso fin da subito che non mi sono fermato ad un primo ascolto, non mi sono accontentato della qualità d’ascolto dell’automobile, per cui ho concesso alla trasmissione un secondo e poi un terzo riascolto online prima di scrivere.

Ma poi basta.

“…Fedele parla di sculture sonore” così apre le danze il conduttore lasciando l’eventuale spiegazione (o interpretazione) dei termini nelle mani del musicista. Il concetto di scultura sonora non è certo di Fedele, né lo abbiamo mai sentito appropriarsene; lo usa sì, nelle sue lezioni e discussioni, ma non è questo il punto. Il punto è che lo stimolo al dialogo è molto forte, molto bello, perché apre, conduce ad una riflessione sul suono, sulla sua componente fisica quanto sulla tridimensionalità percepita, solida, prima ancora che ad altre questioni musicali. Insomma passo rapidamente dall’ascoltare al sentire. E forse è per questo che mi incazzo così rapidamente.

Il concetto di scultura sonora

“…è molto dentro alla sua idea di composizione musicale, soprattutto nell’idea di proiezione del suono nello spazio. Cioè intendere il suono nella sua dimensione di concretezza quasi tangibile. C’è una componente di gestualità nella musica di Fedele, del gesto inteso come un movimento, un’azione fisica che attraverso il suono si proietta nella sala…”

È bello no? Si che lo è, il suono veicolo del gesto che si proietta nella sala. Belle parole. Il musico va un po’ oltre ed evidentemente incuriosisce il conduttore che di nuovo lo stimola con una domanda acuta e, ancora, proiettiva:

“questa componente fisica […] quanto è difficile da rendere in un’incisione?” Alzo una tacca per ascoltare la risposta. Il musico conviene con me, questa domanda “è un’ottima opportunità”.

Ma per cosa?

Ecco, più ci si ripete che le aspettative sono la trappola che l’io fa al sé, più ci si convince che sono la causa primaria del malessere umano, più, nell’emozione, ci si lascia intrappolare da se stessi. Sono un bambino. Ho proiettato sul povero Michele tutte le mie frustrazioni musicali e ora sono in attesa, come un amante davanti alla porta a cui ha bussato con i fiori nascosti dietro la schiena. La mente è in grado di separare il tempo tra quella parola, opportunità, e tutto ciò che seguirà, inzeppando simultaneamente tutte le dimensioni che essa comprende, di informazioni. La coscienza che si proietta sulla realtà per rallentarla quanto basta per sollevare un’emozione latente, una sensazione.

“…per segnare […] la differenza netta […] tra gestualità e teatralità” Ma come. Non si stava parlando di suono? Di musica? Di discografia? Non era questa l’opportunità meravigliosa di indagare le qualità del suono e indicare, nell’industrializzazione musicale legata alla discografia, il momento in cui nella storia della musica il suono fisico si stacca dal sentire? Non è questa l’opportunità per fare chiarezza tra le parole ed indicare i limiti del suono, quelli della musica, quelli del segnale e del suono riprodotto… quelli della mente?

(knock, knock) La porta è rimasta evidentemente chiusa. In un attimo sono di nuovo solo. Non stanno più parlando a me e non sono più in grado di sentire. Sì, forse rimango in una informe trappola tra l’udire e l’ascoltare, ovattato dalla delusione amorosa. Michele! Perché Michele? Solo. La solitudine del comprendere il suono nella sua duplice capacità di erigere statue sonore: fisica e sensibile, acustica e psico-acustica. Di nuovo quell’amara solitudine del sapere, quell’inevitabile sentirsi straniero, quando le parole rapite e stuprate non tornano più com’erano prima e si smette di sentire.

Se togliessimo la componente visiva (in un disco), così prosegue il nostro, la teatralità verrebbe meno.

Mentre

“la gestualità di una composizione, non è necessariamente legata all’aspetto visivo […] può anche essere un gesto compositivo, quindi può essere anche un movimento virtuale non necessariamente fisico, ma anche quando è un gesto fisico […] l’obiettivo musicale di quel gesto è la sua concretizzazione la sua proiezione come suono […] quindi anzi, evviva l’ascolto senza aspetto visivo perché a quel punto il gesto si ricompone nella mente dell’ascoltatore per come è nato, e cioè per pura proiezione del pensiero…”

Al di là di questioni sinestesiche calpestate d’arroganza, è affascinante l’abilità quisquiliatoria con cui in un solo arco di pensiero, gesto, composizione e virtuale vengano abusate per non significare più.

Siamo partiti da un’idea di statua sonora e in pochi attimi siamo finiti nella composizione di gesti virtuali che si proiettano, non nello spazio, ma nel pensiero. Questa a scuola la chiamiamo forma, non è virtuale e non serve scomodare l’arte plastica per parlarne, per poterne parlare con semplicità. La statua, immobile per definizione, che si fa movimento, veicolo di un gesto virtuale, che si muove in virtù, un movimento potenziale. Ma quindi, si muove o non si muove? E soprattutto: cosa si muove e perché? Non è dato saperlo.

Procedono all’ascolto del primo frammento che potrebbe avere qualsiasi titolo, anche al terzo ascolto ci arrivo così frastornato che non si imprime nella coscienza.

Se ci fosse in atto una ricerca scientifica sui danni provocati al cervello dalla fruizione di suono di merda, questo disco si candiderebbe ad arma di uccisione di massa. È chiaro, a questo punto, che la quantità di parole abusate è solo in relazione a un principio di compensazione: non c’è niente di cui parlare.

Non so come un musicista possa essere in grado di non ascoltare la voce del proprio strumento al punto da accettare quel segnale uscire dagli altoparlanti. A più di cento anni di distanza dalla nascita della registrazione sonora, oggi, conosciamo bene quanto questa abbia sconvolto l’umanità e le pene che, nella storia della musica, hanno dovuto patire musicisti nell’accettarsi al cospetto di sé stessi fuori da sé stessi. Ma questo non ha impedito la creatività e la creazione di capolavori di suono (virtuale) e musica (riprodotta).

Avrei voluto ascoltare, sentire, la forma sonora del violoncello.
Un corpo vibrante provare a parlare la lingua di una statua.
Avrei voluto sentire le orecchie dirigersi nella profondità dell’ombra proiettata dalla statua. Avrei voluto che almeno una di quelle parole non fosse stata tradita. E la cosa più importante è che sarebbe stato possibile, senza mistificazioni. Perché il mistero del suono sta proprio lì! e nell’arte con cui si piegano gli strumenti per trasformarlo in un segnale c’è tutta la magia della ripresa sonora.

Non c’è più suono. C’è solo un segnale audio in cui un archetto disturba corde acide, la trasmissione di un attrito, l’atto di una violenza.

Non c’è un corpo da violentare, è la visione tipica del violentatore.

Non c’è uno spirito violentato. Anche questa.

È tutto normale.

No non lo è, infatti fa cagare.

Ma la chiave del perché è tutto così fuori fuoco arriva a metà della chiacchierata, quando, scomodando Xenakis, il musico si avventura nel consegnare alla partitura il ruolo di opera d’arte. Ecco svelato tutto: non è la musica ad essere possibile d’arte, ma la scrittura, il foglio di carta, l’impaginazione ad arte. Ha smontato il corpo dello strumento, la cassa di risonanza dal suo violoncello, perché non gli serve. Gli servono solo le note, le altezze, quelle che sentiamo urlate quando violenta la corda con l’archetto e che testimoniano l’unica lingua che può parlare la carta.

“il pezzo scritto come un quadro”

Questa è la sua concezione di musica, come dire, il lasciapassare per qualsiasi forma di violenza. La carta, che è arrivata dopo la musica, che si affianca alla musica, un supporto, nella sua visione diviene arte fine a se stessa.

Ed è tipico dei violenti anche l’arroganza:

“il pezzo scritto diventa autonomo, ed è questa la sua grandezza, diventa autonomo anche da chi l’ha scritto”

Purtroppo si è servito dell’autore sbagliato per portare il ragionamento sbagliato: Xenakis, come altri della sua epoca, ha portato il suo pensiero in musica e in parole, ha srotolato i suoi problemi musicali nelle forme che ha desiderato. Non esiste una musica autonoma dal pensiero ed il pensiero non è confinabile nella scrittura di alcun tipo. Lo scrivere, parole, sopra, sotto, di lato alla musica per quella generazione di compositori era semplicemente portare avanti il ragionamento, che si faceva sempre molto complesso, con più strumenti possibili. E la follia di citare un musicista non-educato, uno per cui la semplice etichetta compositore è in grado di descrivere solo una parte della realtà che egli ha curato, costruito e persino rappresentato, è la dimostrazione del fatto che di quella generazione ci si riempie la bocca e le biografie pur non amando nulla del loro pensiero. Ho usato la parola amore, perché senza amore, che è sentire, non c’è ascolto. Al massimo c’è l’udire.

Vorrei sorvolare su qualcosa, ma non riesco ad essere indifferente. Passano continuamente concetti sbagliati, anche semplici, come l’associare la corretta annotazione di diesis e bequadro a una forma di iperscrittura. Cose semplici che Hannah descriverebbe come quella banalità del male che trama fino all’avada kedavra che il nostro signore oscuro scaglia verso la musica quando, infine, parla di scrittura grafica.

“chiunque può scrivere una linea, una curva sul pentagramma”

Invece le note no? I pallini sono di una difficoltà superiore alla linea?

Non è ciò che sta prima e dopo, sopra e sotto di quella linea a convincere il musico che non c’è alcuna differenza tra una scrittura che si muove per pallini e una che lo fa per linee. A convincerlo che si può fare musica con le linee è la poetica dell’autore che, in funzione del mondo sonoro che custodisce o evoca, è in grado di fare la differenza tra linee identiche di persone diverse. Non sta a me puntualizzare che questa considerazione va in netta contraddizione con l’assunto della partitura come opera d’arte liberata dal creatore. E sorvolando la complicazione che questa contraddizione apporrebbe, mi limito a indicare come la scrittura grafica non sia una deriva, un’anomalia né tanto meno un’invenzione della musica contemporanea, quanto l’adozione di sistemi di pensiero che sono sempre esistiti nei campi del sapere umano. E sì, chiunque può apporre una linea, ma l’idea musicale non ha che fare con il retaggio poetico di chi la stende, quanto con il ruolo che questa ha con l’universo che gli è stato costruito attorno, con cui essa entra in relazione e che ogni tanto chiamiamo musica.

L’ultimo appunto lo dedico all’ascolto finale, il brano con elettronica: potremmo scrivere senza problemi “è l’unico brano del disco che ha un corpo sonoro” forse proprio in virtù del fatto che quel corpo vibrante non è opera sua (Francesco Abbrescia). Nevertheless, che bella parola, anche qui il musico usa una complessa rete di figure retoriche per non dire nulla: l’elettronica non è un’appendice ma sta dietro, è un dialogo in cui si limita a rispondere. Inoltre l’elettronica, finalmente, a suo dire, ci permette di vivere il suono tridimensionalmente.

In un certo senso al termine dell’intervista il musico, con consapevolezza o no, ci rende partecipi della sottile bidimensionalità del suo percorso, del suo ragionamento, del suo suono, del suo strumento e concede all’ascoltatore lo strumento di verifica delle stronzate precedenti.

L’inFedeltà al suono, alla novità, alla discografia, allo strumento. L’inFedele consuma le parole che ci identificano e un po’ smettiamo di essere quello che siamo, anche solo perché non abbiamo più parole intere, solide, statuarie, per dirlo.